Già che ci sono, ché la lontananza da queste pagine mi ha distrattamente relegato per giorni in anfratti mentali finto-riflessivi, offro a voi l’epifania del mio verbo, con invito a nutrirvi di esso come si può di un baccello di vaniglia, o di un conato di vomito. La verità è che non esiste un Dio del piano superiore e per millenni l’umanità ha ceduto all’equivoco della parola, trasformando Dio in un simbolo linguistico, e su di esso ha edificato chiese, imperi e speranze di salvezza. La domanda da porsi non è se Dio esista o no, ma cosa voglia dire la parola stessa. Non esiste un creatore trascendente, e, per dio, non esiste alcuna vita oltre la morte, nessuna ricompensa, nessuna rimessione dei peccati, ed è inutile per questo chiedersi che senso abbia, dal momento che la vita stessa è il senso, ossia la direzione, l’unica che valga la pena percorrere. Le religioni rivelate si nutrono tutte del paradosso del nulla e dell’ignoto, dell’illusione del bene rifugio ultraterreno, del malinteso di un Dio remoto onnipotente e salvatore, della fede degli uomini deboli: prosperano grazie alla primitiva esigenza di scrutare i cieli in cerca di risposte, alle umane paure, al senso di finitezza dell’esistenza.

Credete, dunque, ma solo perché siete schiavi del bisogno.

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