Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva;
nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.
Virgilio

Bucoliche, Ecloga I

Ad agosto il supermercato del quartiere si popola della consueta fauna vacanziera. Me ne sto alla larga, possibilmente. Adeguo la dieta del mese così da ridurre al minimo le occasioni di contagio, fuggendo quel luogo sgraziato e i suoi gironi infernali fatti di donne sguaiate e voci alterate dal tabacco.
Ricordo che già da bambino trascorrevo la stagione al riparo dai flussi turistici e dai suoi picchi agostani, considerati alla stregua di un morbo senza vaccino: un male, tuttavia, necessario.
Nel mio ritiro di campagna mi confrontavo con l’albicocco, preferendolo all’albero del pruno, i cui frutti associavo ad eventi disdicevoli.
I miei passi si perdevano silenziosi tra i filari di viti a ridosso delle vecchie parracine, ricomparendo infine alle spalle della baracca tinta di bianco, dopo aver scansato con destrezza i solchi dei pomodori e quelli delle lattughe. In quel recinto verde non c’era però il faggio, sotto la cui chioma avrei altrimenti riposato nella controra al frinire delle cicale.
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