Sostiene un amico filosofo che l’uomo non muore finché non scompare dalla vista dei propri cari. Ed egli si riferisce proprio alla morte fisica, quella che spegne l’esistenza in vita della persona, sancendone la fine. Un uomo muore, per così dire, definitivamente, solo con una pietosa sepoltura. Prima di quell’istante di sottrazione, di restituzione alla terra, resta una dolorosa presenza di carne che ancora partecipa ai superstiti il proprio senso della vita, come in un ultimo, a volte interminabile, momento di vicinanza. Il mio amico ha da poco vissuto (già, si dice così) quell’esperienza di trapasso. L’ha paragonata alla ferita che si è aperta con la separazione dalla moglie: per giorni, mesi, non è stato in grado di ricucirla, di tamponare l’emorragia da quella carne ancora viva. Ed ha infine elaborato il trauma come se fosse un lutto. Ma senza la pietosa sepoltura. Ora crede nell’immortalità dell’anima. Non c’è tomba che la tenga. A volte, però, anche il suo fardello può risultare insopportabile.

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