Ero lì che riflettevo sulla mia esperienza militare, sul senso di solitudine e noia che avevo sperimentato poco più che ventenne, lontano centinaia di chilometri dalla mia isola, in un’epoca in cui la comunicazione era affidata ai telefoni a gettoni e a qualche sporadica corrispondenza epistolare. Settimane, mesi trascorsi nel grigiore di una caserma triste e decadente, ottusa nei suoi ingranaggi e stanca nei rituali. Tempo che scorreva lento e si calcolava ogni giorno alla rovescia, quello che mancava alla prossima licenza. O alla fine della leva.
Ma avanzava sempre tempo per la città, in principio sconosciuta ed estranea, per le lunghe camminate d’evasione, antidoto al grigiore, tra piazze immerse nel sole e imperiosi edifici, gli stretti vicoli e le scalinate ripide che mi rimandavano a Napoli, facendomi un po’ sentire a casa.
Signora del mare, la Superba, una città che imparai così a riconoscere, giorno dopo giorno, come la cantilena dolce e malinconica della sua lingua: dalle alture al fronte del porto, il profilo colorato da cartolina e quello più nascosto. E il tempo sembrò come d’incanto accelerare.
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