La storia è apparentemente quella di Jake (interpretato da Jesse Plemons), e della sua compagna, la giovane Lucy (interpretata da Jessie Buckley): una relazione fragile, la loro, che si trascina stancamente da 6, forse 7 mesi, a giudicare dai dubbi di lei, dal suo costante pensiero di farla finita, e che va banalmente avanti, quasi per inerzia, forse troppo avanti, come un ingombro o una gabbia da cui è sempre più difficile liberarsi; e ora che lui è ansioso di presentarla ai propri (inquietanti) genitori (interpretati da una straordinaria Tony Collette e un superlativo David Thewlis), ed è così orgoglioso di introdurla ai luoghi dell’infanzia, renderla partecipe del suo mondo, lei aggiunge dubbi ai dubbi e non è più sicura di aver fatto bene ad accettare quell’invito, che va nella direzione opposta a quella di un rapporto senza futuro (e lui per un attimo sembra leggerle i pensieri).
Una storia in apparenza come tante, ma ben presto si intuisce che c’è dell’altro che sta per essere svelato, nascosto tra le pieghe dei silenzi come dei dialoghi, sofisticati: già durante il lungo, interminabile, percorso in auto verso la vecchia casa di campagna, nel mezzo di un nulla angosciante e di una tormenta senza fine, un flusso continuo di pensieri disorienta lo spettatore fino a condurlo gradualmente nella terra del nonsense, sospeso in bilico tra lembi di piani paralleli che si incontrano all’infinito fino a confondere e confondersi. Ma chi è davvero Jake? Quali segreti inconfessabili custodisce? E Lucy (ma poi, si chiama proprio così?) si occupa realmente di fisica quantistica o è una semplice cameriera conosciuta per caso ad una tavola calda? La storia si fa mosaico di tasselli onirici sempre più mutevole ed incerto, emersione di ricordi o forse solo proiezioni dell’inconscio, dal cane Jimmy che appare all’improvviso scrollandosi ogni volta la neve di dosso in un loop paradossale, all’anziano bidello triste che ritroveremo anche alla fine del viaggio, passando per la metafora del maiale e per i tanti sbalzi temporali che si affastellano nella mente del o della protagonista.
Se c’è un tema che ricorre ossessivo, è quello del tempo, il nemico più grande, perché imprigiona nel rimpianto e non dà occasioni di riscatto. Ma sarebbe riduttivo decifrare l’opera di Kaufman adoperando gli strumenti tradizionali di comprensione o escogitando soluzioni semplici: i’m thinking of ending things si presta a letture complesse e volutamente ambigue, disseminando ovunque sulla scena tracce di una coscienza sempre in conflitto con se stessa, di un uomo frustrato, intrappolato nella propria solitudine e nella memoria di una vita mai vissuta, nella realtà incapace di emanciparsi o anche solo di accettarsi, e che solo in un ultimo illusorio istante di consapevolezza si lascia attraversare dal tempo, abbandonandosi ad un destino già segnato.
Bentornato tra i vivi con questo gioiellino.
Grazie.
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