A luglio il cortile si popolava di una nuova colorita presenza, quella dei chiassosi vacanzieri napoletani, per noi solo intrusi da tollerare fino al volgere della stagione, forestieri scortesi da tenere a distanza. La sofisticata musica delle nostre audiocassette si contrapponeva a quella sguaiata da loro importata dalla terraferma, avanguardia neomelodica da rigettare con ogni mezzo: una questione di stile che il nostro essere ancora adolescenti non ci impediva di rimarcare con forza. Persino le hits del momento ci sembravano tracce superiori e perfette per le nostre improvvisate raccolte. Era l’estate del video che aveva ucciso the radio star, delle canzonette di Alan Sorrenti, della ballata celentanesca, del tributo all’amicizia di Renato Zero, della disco di Diana Ross, e anche dei nuovi capolavori del rock. Ma la impari battaglia a suon di note, persa in partenza, era la sola che ci sentissimo pronti a combattere. Seduti verso sera sull’uscio di casa, con il sole e la salsedine ancora sulla pelle e nei capelli, assistevamo rassegnati alla contaminazione degli spazi consueti. Il nostro vicolo cambiava ogni anno pelle, trasformandosi in improbabile quartiere. E il cortile era il luogo del racconto e della fantasia che ci era stato sottratto e del quale ci saremmo riappropriati solo a settembre.
Lo attraverso ancora oggi, quel cortile, che i ricordi mi impediscono di vedere deforme e decadente, intrappolato com’è nella memoria e sospeso nel tempo.
U’ rifuggio.
‘a faccia gialliàta.