Ci sono luoghi che pretendono rispetto. Luoghi di dolore, nei quali si sono consumate tragedie che trascendono i singoli individui, assumendo un significato universale. Tragedie che rivivono sui volti e nelle parole di alcuni, i non sopravvissuti al male o i fuoriusciti per miracolo dal recinto disumano dell’orrore. Fotografare qui, in questi luoghi della memoria, va oltre la pura narrazione per immagini: è esperienza che proietta nel passato, riempiendosi di contenuti emotivi. Ho visitato Auschwitz i primi di aprile, un mese che da noi vuol dire primavera, ma che in quella terra di mezzo del Sud della Polonia è solo un naturale prolungamento dell’inverno. Raffiche di vento gelido sferzavano gli alberi di betulla, mentre file ordinate di visitatori si accingevano a varcare il cancello. Quel cancello. Con la sua scritta beffarda e cupa, come cupa era l’aria che si respirava, nonostante i giorni di festa.
Avevo percorso i primi metri come assorto, macchina fotografica in spalla, dimenticando lo scopo di quel vistoso fardello. Sono tornato sui miei passi, lasciando il gruppo e la sua frettolosa guida, per recuperare lo scatto perduto al principio del cammino.
Auschwitz, ingresso
Vi diranno che ad Auschwitz, come a Birkenau, le foto sono ammesse, ma con discrezione, o che in alcune zone del campo appositi cartelli vi segnaleranno il divieto. Scoprirete da soli, la prima volta, che la vostra passione per la fotografia dovrà misurarsi con una sorta di spontaneo ritrarsi di fronte alla sacralità del posto e all’enormità delle storie che esso custodisce.
Gli altri prigionieri di Auschwitz popolano la mia memoria della loro presenza senza volto e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia del pensiero.
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