La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che lui non esiste. V. M. Varga
Calato il sipario da qualche settimana sulla terza stagione della serie televisiva Fargo, ispirata all’omonimo capolavoro cinematografico dei fratelli Coen, che ne sono stati anche i produttori, provo qui a freddo (si fa per dire, date le attuali condizioni climatiche) a raccontare alcuni dei suoi pregi, scientemente evitando di parlare dei difetti, per la verità pochi e tutti oscurati da una regia lucida e geniale, quella di Noah Hawley, e dalla recitazione straordinaria dei suoi interpreti principali (Ewan McGregor, in un doppio ruolo degno di consacrazione, quello dei gemelli opposti Emmit e Ray Stussy, ma, soprattutto, David Thewlis, nei panni del bulimico V. M. Varga).
Più diesel che benzina rispetto alle precedenti edizioni, le dieci puntate della ultima stagione di Fargo sono una nuova celebrazione cinica, surreale e grottesca della sconfinatezza del male e dell’impotenza del suo opposto (qui, incarnato dalla tormentata agente di polizia Gloria Burgle, la bravissima Carrie Coon di Leftovers).
La narrazione si nutre di quell’umorismo nero che costituisce la cifra stilistica dei Coen, ma offre anche spunti e soluzioni originali che valgono a conferire alla storia un’impronta autentica, mai banale, che emerge con forza dalla ricchezza interiore di ogni singolo personaggio, dalla propensione per le analisi introspettive, dal gusto per le suggestioni letterarie e le citazioni, affidate per lo più alla bocca del personaggio più subdolo, colto ed inquietante dell’intera serie, il malefico signor Varga.
C’è soprattutto il caso, che tutto governa, ad incrociare destini e comminare pene, anche capitali, con una spietatezza lieve che non indulge mai al trash, tra verità ed apparenza, realtà oggettiva e manipolazione destabilizzante.
Fargo è un affresco d’autore di una umanità senza speranza di redenzione.
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