Dall’armadio tiro fuori un cappello nero mai prima indossato. Relegato tra i ricordi di una vita passata. Un vecchio regalo di compleanno. Rimetto a posto il telefono di casa, controllo l’ingresso principale. Nessuno in vista. L’epopea di Macondo può attendere. Mi avvio a piedi.

Il viale del parco è deserto e ricoperto di aghi.

Giunto in strada, scorgo dietro una curva in lontananza l’autobus di linea. Decido di prenderlo. Mi alzo il bavero, indosso il cappello e mi avvolgo la sciarpa come un turbante, non so bene se per proteggermi dal freddo o confondermi tra la gente. Salgo a bordo. Incrocio lo sguardo indagatore del conducente. Indugio ad occhi bassi prima di sedermi, fingendo di estrarre un biglietto dal taschino della giacca. L’autista mi osserva dubbioso dallo specchietto, mentre procede spedito verso il capolinea, curva dopo curva. Distrattamente cortese.

Non si preoccupi, signore, non ce n’è bisogno, siamo quasi arrivati….

Ho come la conferma della validità del mio travestimento.

Una laboriosa manovra, si aprono le porte. I passeggeri si accalcano verso le uscite, scambiandosi pedate ed imprecando. Mi sento in dovere di ringraziare l’uomo barbuto al comando, poi mi dirigo rapido verso un altro pullman in partenza. Il numero 7.

Da bambino mi piaceva saltare da un numero all’altro, spinto dalla curiosità di esplorare luoghi e volti sconosciuti di un’isola che mi appariva aliena e magnifica. E dal fascino del proibito.

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