A Roma, già che c’ero, sono andato a ripassarmi i capolavori della Galleria di Villa Borghese e quelli della Galleria Nazionale di Arte Moderna.

Roma
Feb 15, 2016 | Ricordi, Viaggi e Racconti
A Roma, già che c’ero, sono andato a ripassarmi i capolavori della Galleria di Villa Borghese e quelli della Galleria Nazionale di Arte Moderna.
Io ero seduto a poppa e scrutavo il mare blu, vento tra i capelli, assorto nei miei pensieri di bambino, una domenica di agosto di tanti anni fa.
Portammo indietro le lancette, inondati da fiumi di luci e colori nella corrente di Times Square. Vapori dalle grate come nebbia disegnavano visioni.
D’un tratto quei solchi si fecero strade polverose di campagna. E nei suoi occhi non vidi più il mare.
Il ricordo di quelle notti è affiorato inatteso. L’odore di vinile intriso di fumo. La cenere di sigaretta. Lo scricchiolio in cuffia dello sgabello. Tutto intorno, il silenzio. Le luci riflesse sul vetro di fronte. La voce al microfono. La musica in testa.
Vi fu un attimo di silenzio, assordante. Poi il rumore di una porta che si apriva, in cima alle scale. Cominciai così ad avvertire il peso dell’inquietudine che mi portavo dentro.
Gli strinse forte la mano. I suoi occhi erano meno tristi ma lucidi. La sua voce profonda, l’accento francese: ecco, Avvocato, questo è tutto ciò che posso permettermi per ringraziarla.
Ricordo l’espressione del celebrante di lieve smarrimento. Sposi senza anelli né veli si scambiavano laiche promesse in un caldo pomeriggio d’estate.
Mi è apparsa all’improvviso, al risveglio da sogni inquieti, mentre rimettevo ordine ai ricordi, in questo pigro pomeriggio d’autunno.
Era grassa e scortese. Mai sorridente. Una volta, mi sferrò uno schiaffo. Non ne compresi il motivo, che non c’era. Quell’anno durò una vita.
Da bambino mangiavo le formiche. Piccole, vivaci, incolonnate. Un gioco da gigante sull’isola di Lilliput.
Continuo a parlare alle statue. Pietra o gesso o metallo, talvolta non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.