Definirsi ateo è questione di fede ma anche di parola. E’ affermazione necessaria a segnare il distacco, scelta di campo che però si annuncia e risolve in un vuoto prefisso privativo, se non se ne chiarisce né spiega il senso. In principio era il Verbo, ma quale significato attribuirgli? Porsi questa, di domanda, è essenziale a sgombrare il campo dall’equivoco di una negazione che si riduce a icona della miscredenza e così conforma e deforma il concetto stesso di Dio, facendone prerogativa del credente. Esiste invece una religiosità laica, che si nutre dell’autonomia della coscienza e della indipendenza della ragione, smarcandosi dal trascendente e dall’idea di un Dio antropomorfo creatore del cielo e della terra (e di tutte le cose visibili ed invisibili), che rivendica a buon diritto la parola, rendendo liberi. Vogliamo definire atea questa spiritualità della ragione? Forse, sarebbe il caso di chiamarla con il suo vero nome: amor proprio.

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